martedì 5 agosto 2014

Politica&Società. Quando c'era Almirante...

Giorgio Almirante a Roma in una gremita Piazza del Popolo
“Scelsero me perché ero il più scalcagnato di tutti”, rispose così, un ormai anziano Giorgio Almirante, a Gianni Minoli che gli chiedeva perché nel 1947 chiamarono proprio lui alla guida del Movimento Sociale Italiano. Almirante aveva ragione, apparteneva alla generazione degli “scalcagnati”, perché dopo la repentina e traumatica fine del fascismo fu animatore di quella sparuta schiera di attivisti-intellettuali che al “si salvi chi può” del 25 luglio scelsero la strada più difficile e più rischiosa. Seguirono infatti il loro Duce malconcio nella sua ultima avventura, inseguendo con lui il sogno di riagganciarsi a quel socialismo che Mussolini aveva dovuto “temperare” con i compromessi tipici di chi si trova a governare l’Italia.
La storia è nota, il sogno della repubblica fascista finì molto presto nella guerra civile e nelle barbarie di cui piazzale Loreto fu solo lo squallido culmine.
Di Giorgio Almirante, leader della opposizione di destra, sono noti il coraggio di tribuno sulle piazze, la capacità oratoria, così come l’onestà politica e personale. E’ questo quello che prima d’ogni cosa gli va riconosciuto, pur nel dissenso delle opinioni che ancora oggi permangono.
Una vita vissuta tra i fischi e gli applausi. “La prima volta lo incontrai nel suo ufficio al Secolo d’Italia -ricorda Arrigo Petacco- allora la redazione era in via Tomacelli, al primo piano di un palazzo dalla irriconoscibile facciata littoria. Lui pigiava sui tasti della Lettera 22. Scriveva, manco a dirlo, un tagliente articolo di fondo. Sulla scrivania, accanto a una lampada liberty, di sapore vagamente dannunziano era posato un pacchetto confezionato con carta di rosticceria, bianca e unta. Era la sua cena. Una mozzarella, tre supplì, una mela.
Finse sorpresa, vedendomi entrare. Alzò gli occhi dal foglio già riempito a metà. Levò gli occhiali e, sorridendo cordiale, mi invitò a sedere. Mi colpì lo sguardo, quegli occhi verdi, metallici. Erano miti, tristi, freddi. Li ravvivavano di tanto in tanto guizzi di volpina ironia. Mi parlò dei programmi immediati. Mentre spiegava questi suoi problemi, fui attratto da una foto alle sue spalle. Era la foto del primo comizio di Almirante, davanti la sede de Il Tempo, nella rovente piazza Colonna dell’immediato dopoguerra.
Piazza Colonna non è cambiata da allora -conlcude un laconico Petacco- è mutato il clima politico. Adesso è appiccicoso, tropicale. Lo surriscalda solo lo scirocco africano, non certo l’epica politica”.
Almirante è stato un politico sui generis, è stato la personificazione della genuina passione politica. E' stato il primo vero interprete della "politica-spettacolo", la politica era teatro per lui, orgoglioso di discendere da una famiglia di commedianti. La politica era gesto, ammiccamento, boutade, colpo di scena, commedia. Commedia pirandelliana...
Credeva nella magia della parola, il “bel dire”, la dizione limpida, la pronuncia ripulita da accenti o cadenze, il linguaggio del corpo mellifluo e armonico oppure marziale, a tratti quasi sacrale.
Durante la sua carriera politica seppe più volte vestire i panni di diversi personaggi, proprio come a teatro, così all’Almirante di lotta si sostituiva l’Almirante “in doppiopetto” a seconda delle stagioni politiche.
Certamente uno meriti storici innegabili di Almirante è quello di essere riuscito a mediare tra le infinite di correnti di pensiero che animavano il dibattito interno alla destra italiana, riuscendo a ricondurre al dibattito democratico molte frange del movimentismo giovanile che altrimenti sarebbero certamente cadute nelle fauci dell’extraparlamentarismo sovversivo.
L’Almirante statista fu proprio quello che in segreto incontrava Berlinguer per fronteggiare in comune i canali di continuità tra i propri partiti e le frange estremiste.
"Che gioia -scandiva un anziano Almirante nel suo ultimo comizio in Piazza Navona- vedere tanta giovinezza nel Msi! Che gioia, per il vecchio segretario del partito poter dire di non aver lavorato invano! Non mi sono sacrificato invano!”; a questo punto, l’ordinato silenzio della piazza che ascoltava il segretario si interruppe con la voce di una ragazza che d’istinto gli urlò: “Sei giovane!”. Ecco la sintesi magica di quegli intensi anni, quando il vecchio segretario restava giovane con i giovani, legato dal sottile ma robusto filo dell’amore per le idee in cui si credeva e per le quali si combatteva.
“Tradurre le idee in azione”, lo diceva spesso Almirante, cosciente del fatto che in una società in continua evoluzione non bastavano le dispute filosofiche ad appassionare le masse, bisognava toccare temi reali, parlare al cuore della gente. Così Almirante, girando l’Italia in lungo e in largo, “come un apostolo”, ricorda Donna Assunta, non disdegnando di dormire in treni di terza classe, trasformava in verbo le idee del pensiero alternativo al sistema dominante.
Quel suo essere aulico ma al tempo stesso vicino alle masse lo resero popolarissimo specie al sud, dove spesso si schierò in favore dei diritti del proletariato dimenticato.
Una volta gli chiesero cosa sarebbe stato se non fosse esistito l'Msi e lui disse: socialdemocratico.
La seconda fase della vita politica di Almirante si aprì quando diventò segretario dell'Msi per la seconda volta, alle soglie degli anni Settanta. Collocò nettamente il suo partito alla destra, cavalcò battaglie da partito d'ordine, fino ad affiancare la storica sigla missina alla dicitura “Destra nazionale”. I frutti si raccolsero alle elezioni amministrative del '71 e poi alle politiche dell'anno dopo, moltiplicò la militanza e riempì le piazze fino all’inverosimile. Tutti, anche gli avversari volevano ascoltare Almirante. Sognò una destra nazionale che superasse l'originario neofascismo pur senza abiurarlo -secondo la formula di Augusto de Marsanich “non rinnegare non restaurare”- e che si aprisse ai monarchici, alla destra liberale e democristiana, ai partigiani bianchi. Il partito monarchico confluì nella destra nazionale. Quel progetto poi culminò nella “Costituente di destra per la libertà”, che fece presiedere a un partigiano cattolico, Enzo Giacchero.
Ma Almirante era troppo avanti. Il suo progetto fu aggredito da una risorta mobilitazione antifascista, guidata dal Pci ma teorizzata e istituzionalizzata dalla sinistra Dc tramite l'Arco costituzionale (il conio fu attribuito a De Mita). L'Msi fu ricacciato nel ghetto insieme al sogno della destra di governo.
E allora Almirante tornò “apostolo”, denunciando la corruzione del sistema politico e predicando anzitutto il suo vangelo solitario della “nuova repubblica” da edificare su presidenzialismo e elezione diretta dei rappresentanti politici, a partire dai sindaci fino ad arrivare al Presidente della Repubblica. Far contare di più gli italiani e meno i partiti.
Almirante morì nel 1988, solo qualche anno dopo quel sistema che lui per primo aveva picconato, crollò su se stesso. Fu allora chiaro a tutti, anche ai più acerrimi detrattori, che Almirante non era stato soltanto il leader di una piccola minoranza. Almirante aveva ragione!
Ma cosa resta oggi di Almirante? Il mondo è cambiato, e nell’Italia dell’infinito vuoto renziano e della destra che arranca tra mille faide, Almirante appare quasi come una figura mitologica.
Resta un dolce ed antico ricordo dell’uomo che immaginò il futuro ma che -in termini di successione- non ebbe la fortuna di vedere un raccolto all'altezza di quanto seminò. “Mancò la fortuna, non il valore”.

Alberto Cardillo, 05/08/14

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